Un elefante nella stanza
Accadeva raramente che tra un volo e un altro riuscissero a incontrarsi per un caffè.
In quelle occasioni potevi vederli lì, come sagome di cartone rubate all’ingresso di un cinema, seduti al tavolino o appoggiati al bancone di un bar. Lo stesso bar, al di là di dove questo effettivamente fosse, per quanto un posto come quello potesse essere diverso da un aeroporto all’altro, che si circondava delle immense vetrate affacciate sulla pista d’atterraggio. Nell’indefinitezza di un sogno e dei visi di quella gente di passaggio che non avrebbero più riconosciuto, potevi vederli lì, tutti in divisa, che discutevano animatamente di quelle visioni che giungevano dalle mete più remote dell’animo.
In uno di quegli incontri emerse la difficoltà nel processo di produzione dell’opera collettiva. In un momento storico tanto complicato ci è sembrato naturale dover alzare lo sguardo rispetto ad un qualcosa di apparentemente autoreferenziale ed elaborare quello stato di disagio imposto dalle circostanze che ci stava fortemente condizionando.
A quel disagio abbiamo dato il nome di imbarazzo.
Dunque non più delle sagome, mostrate o nascoste, timide o distratte al contesto, sospese tra realtà e sogno ma, in conflitto con l’angusto spazio della vetrina, un enorme peluche a forma di elefante come manifesto di quest'evidente impedimento, questa difficoltà vissuta.